Quando il teatro non c’è

da “La Settimana Enigmistica” n. 3271 del 3 dicembre 1994

Lettera del 14 aprile 2020 alle classi di una scuola media di Roma che hanno partecipato al progetto di didattica della visione “Tre volte almeno”. Ma…

Ciao, come state?

È una domanda che si fa, a volte sincera e attenta, altre volte distratta e altre volte ancora senza aspettare la risposta. In questi giorni, però, è la domanda che non si può non fare. Come state, quindi? Seduti, sdraiati, in piedi? E come state? Annoiati, allegri, smaniosi? Devo farvi questa domanda, scrivendovi, perché non posso leggere la risposta nei vostri sguardi, ascoltarla dalle vostre voci o intuirla guardando le vostre mani, come invece succedeva quando ero in classe con voi.
Ci siamo visti poche volte, è vero, ma quelle poche volte hanno rappresentato per me l’inizio di qualcosa.
Di solito le chiamiamo relazioni e ognuno di noi ne conosce di diversi tipi: si può essere amici, volersi bene, innamorarsi, domandare e rispondere, comprare e vendere, parlare e ascoltare, ecc… Si possono vivere stando abbastanza vicini per sentire gli stessi odori e stringersi la mano, oppure a distanza usando un telefono.
Facciamo normalmente tutte e due le cose: a volte iniziamo una relazione stringendoci la mano, altre volte aggiungendo un contatto, taggando persone, accettando richieste di amicizia ecc… e poi continuiamo, tenendo insieme tutte le occasioni e i modi per rimanere vicini.
Tutte cose che sapete già, ma oggi voglio metterle bene in fila per averle più chiare.
Perché? Perché in questi giorni di quarantena sto cercando di capire anche che tipo di relazione ho con voi.
Non saprei dire di che tipo di relazione si tratti ma posso cercare di riconoscerla a piccoli passi, per tentativi. Posso dire di essere vostro amico? Non direi. Di sicuro posso dire di non essere un vostro parente o un vostro insegnante. E allora? Facciamo finta di niente? Come se non ci fossimo mai incontrati? Facciamo finta che quelle ore trascorse insieme a parlare di quella strana cosa che è il teatro non significhino nulla? E tutto questo, senza esserci andati insieme neanche una volta? Ecco. Forse per capire che tipo di relazione c’è tra noi, posso dire di cosa non è fatta. Non è fatta di teatro… Primo spettacolo: allerta meteo. Ricordate? Adesso il corona virus, anzi, il nuovo corona virus, anzi no, il Covid-19 (a proposito, ma qualcuno di voi ha capito che differenza c’è?).
E allora? Di cosa è fatta questa relazione che credo di avere con voi, con i vostri insegnanti, con i vostri genitori, e, forse, con gli amici che avete fuori dalla classe se, almeno una volta, vi è capitato di parlarne anche con loro?
Forse è fatta di quei brani che abbiamo letto e di quelle immagini che abbiamo guardato insieme, di quei nomi e di quei titoli che abbiamo scoperto o che abbiamo ritrovato, di quelle domande e di quelle idee che abbiamo condiviso? Questo sì. C’è stato. Lo abbiamo fatto.
È fatta anche dei banchi, delle sedie, della lavagna, dei grandi disegni alle pareti, della campanella, del sole e delle nuvole che potevamo guardare attraverso le finestre? Anche di questo? Per me, sì.
E della curiosità e dell’attesa di scoprire cosa sarebbe apparso in teatro davanti ai nostri occhi? Soltanto ognuno di voi può saperlo davvero.
Ma allora, una relazione nata con il patto di andare a teatro insieme può esistere già prima di rispettare quel patto e senza il teatro? Il teatro, che è nato per invitarci a guardare ma che noi non abbiamo ancora visto, serve oppure no alla nostra relazione?
Sto parlando di cose che si vedono e di cose che non si vedono. Qualche tempo fa ho scoperto che non riusciamo a vedere tutti i colori che esistono. Gli scienziati lo chiamano “spettro visibile” e ci dicono anche che, in realtà, i colori non esistono come delle “cose” ma li creiamo noi grazie al collegamento – nella relazione, si potrebbe dire – tra l’occhio e il cervello. Io, per esempio, sono anche un po’ daltonico e faccio confusione tra alcuni colori, però, da quando uso i programmi di grafica ho imparato che a un certo colore corrisponde un certo numero soltanto e quindi, almeno quando uso il computer, non sbaglio più.
Anche gli oggetti che possiamo toccare sono fatti di cose che non si vedono, gli atomi. Non possiamo vederli ma ci sono; anzi, proprio perché ci sono gli atomi possiamo toccare il telefono, la penna e la mela. E le nostre relazioni? Non sono fatte, anche quelle, di alcune cose che si vedono e di altre che non possiamo vedere e che certe volte non riusciamo neanche a descrivere o a raccontare?
Allora, il teatro che non abbiamo ancora visto insieme, serve oppure no alla nostra relazione? Proprio il teatro che, come anche voi mi avete confermato, ci mostra persone in carne ed ossa per far apparire cose invisibili?
Quando vogliamo raccontare qualcosa che ci è successo, a chi ci rivolgiamo? Scegliamo qualcuno con cui abbiamo una relazione perché vogliamo essere sicuri di essere ascoltati e vogliamo che la persona che sta lì, davanti a noi o dall’altra parte dello schermo, sappia anche come è successo quel fatto e cosa ha significato per noi; e più è importante la cosa, più vogliamo che ad ascoltarla sia una persona importante per noi: qualcuno che possa capire di cosa stiamo parlando e che sia capace di rispettare e condividere le nostre emozioni, la gioia, la rabbia, la felicità o la paura. E non abbiamo scoperto insieme che funziona così anche il teatro, dove ogni volta si incontrano sconosciuti che, dopo essersi visti e riconosciuti, scoprono di essere importanti gli uni per gli altri?
Ecco, a proposito della paura, ricordo che ne abbiamo già parlato per prepararci a vedere “Panic” e “Scateniamo l’inferno”. Abbiamo cercato di riconoscere cosa sia per noi la paura anche se non c’è stato bisogno di raccontarci degli episodi particolari (e perché avreste dovuto raccontarmi delle cose che vi sono successe? Ci conosciamo noi?): ma sappiamo di avere incontrato la paura e sappiamo anche come l’abbiamo superata e insieme a chi. Poi abbiamo invitato Dante a stare con noi e lui ci ha raccontato della gran paura che ebbe all’inizio di quel suo lungo viaggio.
Eravamo ormai pronti a incontrare altre persone, in teatro, che avrebbero rappresentato quella e altre paure attraverso gesti, corpi e parole. Nello stesso spazio ma a una certa distanza.
Ne avremmo riparlato in classe dopo lo spettacolo…
E allora: una mela, un telefono, una penna, per esistere hanno bisogno che ci siano tutti gli atomi sistemati nel modo giusto. Anche una relazione ha bisogno di unire o collegare almeno due cose, persone, numeri o parole e, forse, vive proprio in quell’invisibile che unisce ciò che è dentro di noi con ciò che sta fuori di noi, ciò che possiamo vedere e sentire con ciò che non possiamo toccare, e viceversa.
Questo l’ho capito meglio grazie a voi: stando con voi in classe e non andando con voi a teatro. Ma, a differenza degli atomi nella mela, noi non sappiamo quale sia il modo giusto di combinare le cose senza prima aver vissuto l’esperienza che fa di quella relazione proprio ciò che è.
Però noi ci siamo: io che ora sto scrivendo e voi che starete leggendo o ascoltando queste parole in una chat con le vostre insegnanti o con le vostre famiglie. E anche il teatro c’è. Sta lì. Adesso è chiuso e aspetta, e anche noi dobbiamo aspettare.
E allora, che fare? Possiamo lasciare che questa attesa cancelli il ricordo di quelle ore in classe. Oppure possiamo riempire questa attesa anche con quei ricordi e prepararci a scoprire, appena sarà possibile, che tipo di relazione abbiamo costruito tra noi e con il teatro.
Alla fine di questa lettera ancora non riesco a dire che tipo di relazione ci sia tra noi, ma so che c’è e credo che per scoprire di cosa sia fatta davvero, forse, manca quel pezzetto non visto e invisibile: il teatro. Appena sarà possibile, a me piacerebbe andarci con voi per sapere un po’ meglio quanto e cosa è successo in ognuno di noi durante quei pochi incontri in classe.
E a voi?
E voi, come state?
Soprattutto, i vostri capelli a che punto sono?
Io sono messo maluccio, ho una specie di cespuglio impazzito in testa…
Ciao

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